Campo di sterminio nazista Mauthausen: La sonata degli spettri

MICHELE SMARGIASSI

Quella fotografia ci disturba. È una fotografia piuttosto nota, assai controversa. A lungo, nei libri, e tuttora sul Web, è stata descritta come “l’orchestrina di Auschwitz”. Sbagliato: si tratta di Mauthausen. È uno dei troppi errori che infestano l’immaginario storico dei Campi, pieno di false identificazioni, attribuzioni scorrette, informazioni sbagliate, tutto ovviamente per la gioia dei negazionisti.

Un polacco viene accompagnato al patibolo

Anche questa fotografia fu usata come arma dai negazionisti, uno dei quali, l’austriaco Udo Walendy, nel 1996 sostenne fosse un falso. Per reazione, le associazioni dei sopravvissuti condussero una inchiesta, scoprirono che la foto era stata presa dai responsabili del laboratorio fotografico di Mauthausen, che il negativo era poi stato trafugato da Francesco Boix, deportato spagnolo che ci lavorava; stabilirono che era stata scattata il 29 o 30 luglio del 1942, in una occasione precisa: un internato era fuggito, era stato catturato e veniva ricondotto al campo con una fanfara di scherno, prima di essere impiccato. La storia di questa e di tante altre immagini dei Campi è ricostruita filologicamente in un volume documentato dallo storico francese della fotografia Clément Chéroux.

Il tentativo negazionista su questa fotografia però svela qualcosa di importante. Cioè che il contenuto di questa immagine, quello che mostra, è così disturbante per chi lo guarda con un minimo di coscienza, che sostenerne la falsità ha qualche probabilità di successo.
E perché è disturbante? Per il motivo che rende disturbante (ma è un apprezzamento) il libro L’ultima nota di Roberto Franchini (Marietti editore). Tutti i libri sulla Shoah, ovviamente, sono disturbanti. Dopo ottant’anni non siamo ancora riusciti a razionalizzare quell’evento della storia umana. Questo libro però ci mette di fronte a una realtà che rende la criminale esistenza dei campi ancora più intrattabile, indigeribile, impensabile. Racconta che la musica era presente in modo massiccio, quotidiano, costante nei luoghi dove si è praticato lo sterminio. Musica nell’inferno, musica per l’inferno. E questo la nostra coscienza non riesce a digerirlo. Perché non ci sembra possibile che la più spirituale e sublime delle arti, la creazione umana forse più vicina all’ideale assoluto della bellezza, possa aver trovato un ruolo là dove regnò l’orrore supremo, inconcepibile, totale. Simon Laks, compositore polacco, riuscì a scrivere alla moglie che ad Auschwitz faceva il suo mestiere: lei non gli credette.

Ma è così, e questo libro lo documenta senza lasciarci vie di scampo. Molte vicende che raccoglie erano già note, ma sparse nell’enorme memorialistica sui campi e toccate solo marginalmente dalla storiografia. Franchini ha riunito quelle tracce, le ha messe a sistema, e il risultato è impressionante. La quantità di storie, biografie, racconti è così soverchiante che non lascia alcuna possibilità di sottovalutazione. Nell’universo concentrazionario, ad Auschwitz, Terezin, Buchenwald, Dachau, la musica risuonava: spesso ossessiva, martellante, marcette militari dagli altoparlanti, cori patriottici che gli internati in marcia erano costretti a cantare ritmando i loro passi. La musica come comando e umiliazione. Ma non c’era solo quella. Dopo iniziali divieti, in molti campi vennero ammessi gli strumenti musicali. Orchestrine di internati salutavano e accoglievano il ritorno dei compagni dal lavoro forzato: anche qui, un uso feroce. Ma nelle baracche si suonava e cantava anche senza l’ordine di farlo. A volte per il piacere dei carnefici, molti dei quali, tra una camera a gas e l’altra, si commuovevano per Schubert e Mozart. Ma anche per l’attaccamento di tanti internati verso quell’ultimo brandello di una vita anteriore. C’erano musicisti di grande valore, dietro il filo spinato: Franchini racconta decine di biografie, celebri (Olivier Messiaen, che a Görlitz compose il Quartetto per la fine del Tempo ) o dimenticate, comprese quelle di molti musicisti italiani: Mario Finzi, Emilio Jani, Giuseppe Selmi, altri ancora.

Classica, lirica, ma anche jazz, perfino cabaret. Paradosso tra i paradossi, era nei campi che risuonavano le musiche proibite dal regime. Vennero messe insieme orchestre, alcune clandestine e altre invece ufficiali, addirittura incoraggiate, promosse dai carnefici: quella di Auschwitz è la più celebre, ma il suo organico cambiava spesso, inutile spiegare perché. Vennero programmati concerti, scritte ed eseguite pagine su pagine di musica che sono arrivate fino a noi. Alcune bellissime, strazianti. La musica concentrazionaria è un genere, ci piaccia o no. La massa di prove ci costringe ad ammettere che la musica nei campi non è stata un incidente, o una contraddizione, o una bizzarria, ma una struttura portante del sistema concentrazionario.

Ma perché? Con quale logica, scopo, funzione? Che ruolo assolveva la musica nella logica dei campi? Era benevola o malevola? Dalla parte della vita o della morte? Momento di sollievo o supplemento sadico? Sopravvivenza o controllo? Consolazione o tortura? Sadismo o rifugio? Risorsa delle vittime o imposizione dei carnefici? Oliava il meccanismo dello sterminio o lo contraddiceva? La risposta è angosciante: tutte queste cose assieme, per quanto incompatibili fra loro. E allora questo libro ci rivela qualcosa sull’intima essenza di quella pagina orrenda della storia. Ossia, che la ragione irragionevole dei campi non è stata realizzare il dominio del male assoluto. La sua diabolica intenzione fu di coinvolgere il bene nel male, abolendo la possibilità stessa di una distinzione fra il male e il bene, inverando il puro e semplice trionfo del potere che gode di se stesso, libero da qualsiasi altro scrupolo. Mengele decideva la sorte delle sue vittime agitando nell’aria una bacchetta da direttore d’orchestra.

in “la Repubblica” del 5 gennaio 2022

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